di Nicoletta Meroni
Ho
anch’io le mie opere del cuore o meglio della mente.
Non ho
mai dimenticato la fantastica interpretazione in ceramica di Gio Ponti del
1924-1925 della Cista Ficoroni (opera etrusca in bronzo del IV sec.
a.C.) che ho visto al Poldi Pezzoli di Milano tanti anni fa. Così come non ho
mai dimenticato la riproduzione fotografica in bianco e nero della stessa Cista
Ficoroni originale sul mio libro di Storia dell’arte del liceo.
Le
fonti d’ispirazione degli artisti guidano la nostra memoria all’interno del
mondo delle forme, dal passato più remoto a oggi.
È
facile perciò che, tra gli interessi di coloro che sono appassionati di belle
forme, si passi repentinamente, attraverso uno scatto temporale di gusto, per
esempio dalle ceramiche greche a figure nere o ai buccheri etruschi alla
ceramica degli anni Venti di Gio Ponti (Milano 1891-1979), propagatrice di quel
linguaggio decò, già razionalista, così pulito e leggero e non ancora
contaminato dal monumentalismo ideologico di regime del decennio successivo.
La
razionalità classicista quindi come filo conduttore.
E così
la mostra di Faenza non poteva che risultare interessante.
Nella
produzione degli anni Venti, attingere all’antico per Gio Ponti voleva
significare guardare a un vasto repertorio di forme, dall’arte etrusca a quella
romana. Non certo circoscrivere tutto all’italica radice dell’arte imperiale.
Il
giovane architetto milanese appena laureato si dedica alla ceramica già dal
1920. L’impasto dell’argilla, dalle mani al tornio, dalla produzione
artigianale di bottega alla scala industriale, dal progetto all’esecuzione,
significa ripercorrere la sua idea primaria: l’importanza del fare artistico e
materiale.
“Impari
le cose fatte con le mani. Nulla che non sia prima nelle mani”.
Noi
che abbiamo fatto parte di quel clima fecondo e meraviglioso che era l’Istituto
d’Arte di Monza ne sappiamo qualcosa.
Ciò
non solo riferito alla ceramica ma a tutti quei settori che successivamente
contribuiranno alla creazione del famoso design italiano.
Contemporaneamente
a quanto stava diffondendosi a Weimar all’interno di quella grande fucina di
pensiero e pratica che fu il Bauhaus, questa cultura del fare, strettamente
legata al valore culturale delle differenze, andrà di pari passo con il mondo
della produzione industriale.
La
vicinanza strumentale di Ponti al fascismo aveva permesso di attuare quel
rinnovamento produttivo ed espressivo delle arti decorative così come
Piacentini, con il quale collaborava, aveva fatto con l’architettura.
Ne è
fondamentale esempio il sodalizio tra Ponti e la manifattura Richard Ginori
della quale è direttore creativo dal 1923 al 1933.
È
proprio sulle opere degli anni Venti presenti a Faenza che ci si sofferma più
volentieri e con attenzione. Le più belle inequivocabilmente sono il Vaso
ornamentale La Casa degli Efebi del 1924-1925 e soprattutto il Grande
vaso Prospettica del 1925.
In
mostra ci sono poi alcune ceramiche, altrettanto belle, di architetti della
generazione successiva che hanno tratto ispirazione da Gio Ponti: Alessandro
Mendini e Ettore Sottsass e alcuni altri esempi contemporanei meno
interessanti.
Certo,
come qualunque oggetto di design, anche la ceramica può essere prodotta in
serie, per quanto limitata. Anche noi possiamo venire in possesso di una copia
del Grande vaso Prospettica. La metto in lista tra i regali di Natale.
La
mostra Giò Ponti. Ceramiche 1922-1967 al MICdi Faenza a cura di Stefania Cretella aperta fino al 13 ottobre 2024.